mercoledì 16 novembre 2011

Presa di posizione ed emendamenti per il XXI Congresso Cantonale del Partito Comunista, sezione ticinese del Partito Svizzero del Lavoro

Premessa

Il congresso di un partito comunista è il momento della più ampia discussione sul suo funzionamento, sullo stato del movimento rivoluzionario e sui prossimi passi da compiere. Sebbene, nel nostro caso, si tratta di un congresso cantonale, l'importanza dell'evento non è da sottovalutare e va affrontato con tutta la serietà e la disciplina del caso. I passi avanti compiuti dalla sezione Ticino del PSdL negli ultimi anni, danno al congresso ticinese un interesse nazionale, per tutti quei compagni che rivendicano il marxismo-leninismo e criticano la virata opportunista e riformista del partito nazionale durante gli ultimi 20 anni. Uno dei momenti centrali del congresso sarà la discussione sul documento presentato dalla segreteria, quale base per la candidatura del compagno Max Ay al posto di segretario politico cantonale.

Per quel che mi riguarda il documento non risponde alle esigenze di tale evento. Il compagno Max affronta nel primo capitolo e in alcune parti del secondo e del terzo, questioni molto spinose, già più volte discusse all'interno del movimento comunista internazionale. A mio avviso, si giunge frettolosamente a conclusioni molto “innovative”, superficiali, se non errate rispetto al marxismo-leninismo.

D'altronde, nel testo manca una contestualizzazione del nostro congresso cantonale, sia rispetto all'evoluzione del partito negli ultimi anni, che all'evoluzione del movimento comunista svizzero e del movimento operaio più in generale. Sul PSdL si giunge ad una conclusione coraggiosa, quella di proporre una corrente comunista, sostenibile in linea di massima, ma a condizione che si fondi su basi ideologiche ferme, ossia un attaccamento chiaro al marxismo-leninismo condiviso dai partiti comunisti attivi nella ricostruzione del movimento comunista internazionale.

Il documento non accenna quasi a nessun responsabile politico cantonale, nazionale e internazionale del Stato e della borghesia. Si trovano indicazioni ai militanti per lo sviluppo dell'agitazione (metodi di comunicazione, radicamento, presenza nelle istituzioni borghesi) e dei movimenti di massa (giovani, sindacato), senza ancora riuscire a denunciare i principali responsabili politici dello Stato e della borghesia. Questo rende anche difficile il radicamento rispetto ai luoghi strategici della lotta di classe e la promozione di una lotta che vada al di là del riformismo di sinistra.

Infine mi pare importante sottolineare come il tema dell'avanzata dell'estrema destra (Lega e UDC) sia toccato solamente di striscio. Non si fa rifermento alcuno alla neonata associazione SOS Razzismo e alla linea di condotta che i militanti devono assumere nei confronti di queste forze politiche. D'altra parte non vi è una reale analisi del ruolo che giocano questi partiti nell'attuale panorama politico e quali interessi di classe rappresentano.

Nei tre capitoli successivi tenterò di mostrare i principali punti problematici del testo. Questo mi permetterà di giustificare la presentazione di alcuni emendamenti al documento presentato dalla segreteria al XXI congresso cantonale del Partito Comunista, che ne vincoleranno la mia approvazione. Mi scuso d'altro canto di non aver potuto presenziare alla riunione sezionale, per la quale mi ero anche schierato, ma il breve preavviso non mi ha permesso di rivedere impegni presi oltralpe. Avevo comunque già fatto parte delle mie intenzioni e opinioni sia il Comitato Cantonale che al segretario in via telefonica ed ad altri membri della base.

La classe operaia è l'avanguardia del proletariato

Ancora troppo spesso si sente parlare della scomparsa degli operai dall'occidente o ad ogni modo un ridimensionamento del ruolo d'avanguardia di classe che assumono già nel sistema capitalista. Questa tesi è in voga da ormai diversi decenni anche se in realtà è già stata contraddetta da svariati comunisti. Al contrario nel nostro paese sono sicuramente date le condizioni per lo sviluppo del movimento rivoluzionario guidato da un partito comunista, quale avanguardia della classe operaia, in alleanza con ampie fasce della popolazione, in particolare dei ceti popolari, dei giovani, delle donne, degli immigrati.

L'origine del conflitto di classe si trova nella questione del lavoro, anche e soprattutto all'interno di un paese imperialista. Nel documento congressuale si lascia però intendere che il partito non dovrebbe più concepirsi come avanguardia della classe operaia, ma come avanguardia di tutti i lavoratori, senza distinzione teorica e strategica : “nei centri imperialisti la classe operaia perde quel ruolo di avanguardia di classe che aveva in precedenza” Max, p 2, 8

Una tale semplificazione del marxismo-leninismo è assolutamente in contrasto con le tesi della concentrazione del capitale e della socializzazione della produzione. Come ben spiegato da Lenin, non conta il numero di operai, ma il loro ruolo che essi giocano nel sistema di produzione. La classe operaia è l'avanguardia dei lavoratori e delle lavoratrici per definizione (come un assioma matematico), quindi, più che reinterpretare il marxismo, si tratta di definire correttamente, rispetto alla realtà materiale, chi sono i lavoratori e le lavoratrici che compongo la classe operaia. Non serve inventare nuovi concetti di avanguardie multiple, formate da più attori sociali o il concetto di avanguardie politiche senza una base di classe, questi tentativi hanno già dimostrato in passato di essere fallimentari.

Innanzitutto è necessario chiarire che la classe operaia è un concetto soggettivo ad ogni partito comunista rispetto alla sua fase di sviluppo in precise circostanze ad un dato momento. La classe operaia è da concepire come quelle frange del proletariato che hanno capacità e tradizione di mobilitazione. Il fatto che possano fungere da esempio per gli altri lavoratori e lavoratrici ne fa un elemento avanzato del movimento operaio. Nel documento presentato dalla segreteria, si fa riferimento alla gloriosa lotta delle officine, e si menzionano anche le altrettanto gloriose lotte operaie per il prepensionamento degli edili, ma non si coglia l'importanza simbolica che hanno avuto, nell'affermare due concetti fondamentali : primo che è possibile, in Occidente, difendere un apparato produttivo nazionale e secondo che anche i diritti possono essere ampliati e lo sono grazie alla lotta. Se grazie alle Officine possiamo argomentare contro le delocalizzazioni, grazie agli edili in molti altri settori dell'artigianato si è ottenuto un prepensionamento senza bisogno di scioperare. In questo senso si può dire che gli edili sono stati avanguardia come lo sono stati gli operai delle officine e non è un caso che sono gli operai più classici, ma anche più tutelati, ad aver condotto queste magnifiche lotte. Per quel che riguarda la situazione Ticinese è importante sottolineare che è stato l'ex sindacato SEI ad organizzarle. Oggi quasi tutti i funzionari, tranne il gran consigliere Pronzini e un paio di altri, lavorano nel sindacato Unia.

D'altro canto mirare a delle lotte operaie nei settori strategici del sistema capitalista è un principio importante della lotta di classe. Se bisogna attaccare i capitalisti, ossia i proprietari dei grandi mezzi di produzione, allora è necessario organizzare i lavoratori alle loro dipendenze. Solo così si potrà sviluppare un rapporto di forza tra gran-capitale e lavoro, i lavoratori che sorreggeranno questo confronto sono quindi da considerarsi come la classe operaia. Delle lotte nelle grosse aziende provocano ripercussioni economiche non solo al monopolio in questione, ma anche a tutti capitalisti che seguono nella catena di produzione. Bloccare una rete di trasporti commerciali è un eccellente mezzo di pressione su delle autorità, il miglior modo per farlo è collaborare con gli operai attivi nei posti chiave, come è successo al centro di distribuzione coop di Castione qualche settimana fa. Questo significa ragionare in termini strategici considerando le possibilità organizzative, la sensibilità nel sistema produttivo, la tradizione di lotta.

Se i grandissimi siti di produzione sono stati ridotti, ciò non significa che l'influenza del settore produttivo si sia ridotta in occidente. Una stessa azienda o multinazionale può avere più stabilimenti industriali che sommati raggiungono le decine di migliaia di operai. Il numero percentuale di operai in occidente è tuttavia ufficialmente diminuito. Si deve però rifiutare la tesi della delocalizzazione come unico fattore di spiegazione. Peter Martens ha analizzato la questione e fornisce tre ragioni principali per spiegare la diminuzione del numero degli operai: il progresso tecnico che tende a sostituire le macchine all'uomo, l'esternalizzazione di vari servizi e settori della produzione dalle grandi ditte e solamente il 7% della perdita dei posti di lavoro è dovuta alla delocalizzazione. A quest'analisi si deve aggiungere l'idea che, sebbene ci sia una riduzione di personale, la produzione industriale aumenta e quindi il ruolo che gli operai giocano non diminuisce in importanza, al contrario si accresce.

La classe operaia oggi sono quei lavoratori attivi nella produzione di beni materiali o di servizi, in particolare i lavoratori delle più grandi aziende monopoliste dei settori strategici (alta tecnologia, chimica, biochimica, meccanica, elettronica, alimentari, beni di prima necessità e materie prime, trasporti, comunicazione, ecc.). Questi lavoratori sono essenziali al capitalismo, sono coloro che danno vita alla produzione stessa, per cui sono anche gli antagonisti naturali del gran capitale. In Europea la classe operaia occupa oggi posti sempre più strategici nel sistema di produzione mondializzato, nella misura in cui produce i componenti e macchine di alta tecnologia per far funzionare le fabbriche che producono i beni di consumo (che quelle sono effettivamente in parte delocalizzate).
La Classe operaia in Ticino

Sebbene verrà presentato un documento sul lavoro in Ticino e in Svizzera, vorrei iniziare a fornire qualche informazione sulla situazione della classe operaia nel nostro cantone. Qui di seguito alcuni esempi di aziende di tipo industriale classico presenti in Ticino.

Consitex 850 operaie, tessile
Turbomach 650 operai, macchine da riscaldamento
Synthes 580 operai, tecnologia medica
Mes 550 operai, industria elettro-meccanica
Precicast, 480 operai, componenti meccanici
Officine FFS Cargo, 450 operai, tecnica ferroviaria
Timcal, 400 operai, polvere di granite
Agie Charmilles, 370 operai, industria elettro-meccanica
Assemti, 380 operai, industria elettro-meccanica.
Schindler, 350 operai, industria elettro-meccanica
Alpiq, 310 operai, industria elettrica
Riri, 300 operaie, industria meccanica
Mikron, 300 operai, produzione di macchine
Ibsa, 250 operai, settore farmaceutico
Zambon, 240 operai, settore farmaceutico
Luxury Goods International SA, 222 operai, settore tessile
Vebego Services, 210 operai, servizi di pulizia

In Ticino, di fabbrica ci sono circa 28'000 operai (farmacia 1974, metallurgia 5.322, industria del legno 1’202, meccanica 6.703, elettronica 4’166, lavorazione di materiali 1’715, industria alimentare 1'882, ecc) ai quali si aggiungono 17.254 operai edili. A queste cifre si aggiungono i molti servizi esternalizzati dalle aziende e dal settore pubblico e gli operai del settore pubblico. Per cui si può dire con una certa sicurezza che in Ticino ci siano più di 70'000 operai tra i 190'000 lavoratori (50'000 frontalieri inclusi, di cui).
Inoltre in svizzera e in Ticino ci sono industrie ad alto valore aggiunto, per cui gli operai che vi lavorano hanno una valenza strategica non solo a livello ticinese o svizzero, ma a livello mondiale. Se ditte come : Novartis, Schindler, AGIE e tutte le altre multinazionali della tecnologia si mettono un sciopero è un danno per una clientela mondiale, che permette di instaurare un rapporto di forza serio tra capitale e lavoro.

Lo sviluppo dell'imperialismo come fase suprema del capitalismo monopolista è sempre più profondo.

Il testo del compagno Max, sembra ed oso sperare il contrario, rivisitare la teoria dell'imperialismo di Lenin. Ciò che caratterizza l'imperialismo come lo descrive Lenin, non è tanto il luogo dove vengono prodotti i beni o come essi vengono scambiati. La caratteristica fondamentale dell'imperialismo è l'eccesso di accumulazione di capitale, che spinge i capitalisti monopolisti su scala nazionale, ad esportare capitale (sotto forma di moneta o beni). Esportando capitale, garantiscono il mantenimento del saggio di profitto, andando però a sfruttare paesi interi ed a sviluppare una concorrenza su scala mondiale, che è all'origine di tutte le guerre imperialiste. Bisogna in effetti chiarire che una volta il profitto rientrato nel paese del centro, inizia ad essere capitale di quel paese. Questo fa si che la borghesia nazionale può teoricamente anche liberarsi di buona parte dell'apparato produttivo nazionale e mantenere i profitti esclusivamente su base imperialista. Per cui diventa più che legittima da parte del proletariato rivendicare la difesa dell'apparato produttivo nazionale, contro le speculazioni e i furti della borghesia monopolista.

Considerare che vi sia un reale mutamento della struttura imperialista è però falso. Nel sistema attuale, il capitalismo domina su praticamente tutto il mondo e crea degli scambi di tipo imperialistico su scala mondiale. Il compagno Max dà tre dimensioni successive dell'imperialismo capitalistico. È evidente che con il progresso tecnico, i miglioramenti nelle comunicazioni, le nuove scoperte scientifiche, ecc. si produce un mutamento dei mezzi di produzione. Si parla di imperialismo del libero scambio ai tempi in cui l'Africa si spartiva con il righello, si parla di massimo sviluppo dell'imperialismo monopolista ai tempi di Lenin, quando l'industrializzazione era circoscritta in Europa, Nord America e Giappone e infine di fa riferimento un nuovo imperialismo caratterizzato dallo spostamento della produzione dal centro verso la periferia.

Io contesto quest'analisi, nella misura in cui se è vero che cambiano i mezzi di produzione, non cambiano i rapporti di produzione, ossia le relazioni tra sfruttatore e sfruttato. Il pardone, da che mondo e mondo, sfrutta al massimo i lavoratori, cercando di diminuire il più possibile i costi di produzione. La circolazione dei profitti andava in un senso ai tempi di Lenin ed è sempre lo stesso oggi, dalle tasche dei lavoratori alle tasche dei padroni.

Lo sviluppo industriale delle periferie, dove i mezzi di produzione sono controllati dall'imperialismo, non è per nulla in contrasto con le tesi leniniste dell'imperialismo. In primo luogo perché la crescita del proletariato nelle periferie fa parte dello sviluppo naturale del sistema imperialista su scala mondiale, che va a sostituire i sistemi di produzione feudale ancora esistenti al sud del mondo. Inoltre è necessario sottolineare come l'imperialismo se decide di investire in quel o quell'altro paese, lo fa perché lì c'è la miglior soluzione per trarre profitto sul lavoro. Infine il fatto che nascano luoghi di potere sopranazionali come il G8, G20, Ue, Wef, Fmi, BM, ecc. mostra come l'imperialismo stesso abbia sempre più la necessità di organizzazioni che superino gli steccati delle vecchie frontiere nazionali del secolo scorso, per adattarsi alle nuove dimensioni produttive. Sappiamo tuttavia benissimo che il ruolo delle organizzazioni sopracitate non è altro che quello di programmare le guerre imperialiste, spartire i nuovi “mercati” e organizzare (direttamente e indirettamente) la reazione contro il movimento operaio, ossia le tre caratteristiche fondamentali di ciò che si definisce imperialismo.

Emendamenti

A. Adattare il partito alla nuova fase capitalista

2 Come marxisti sappiamo però molto bene che non possiamo limitare la nostra analisi al mero dato elettorale o, in generale, sovrastrutturale, senza indagare su quelle che sono state le contraddizioni sviluppatesi nell’ambito della struttura economica della società. Occorre pertanto che vi sia, da parte di un partito che si pone in ottica rivoluzionaria, una costante analisi dei processi di evoluzione della classe sociale di riferimento a livello globale e le forme che essa assume in relazione allo sviluppo delle forze produttive.

3 Storicamente ci troviamo nella fase suprema del capitalismo, l'imperialismo, ossia la fase in cui i capitalisti monopolisti prendono il controllo degli Stati e predispongono nazionalmente l'esportazione di capitale. Così facendo, il capitale monopolista nazionale o multinazionale assicura gli investimenti in nuovi mercati, anche attraverso manovre statali, sia sul proprio territorio che all'estero. Non bisogna mai dimenticare che l'imperialismo è un sistema guerrafondaio, come già più volte dimostrato dalla Storia.
Negli ultimi decenni, l'imperialismo ha investito somme enormi di capitale all'estero per rilanciare la produttività. Lo sviluppo industriale delle periferie ne è la conseguenza, nella misura in cui l'imperialismo decide di investire in quel o quell'altro paese, a seconda della miglior opportunità di trarre profitto sul lavoro e le ricchezze naturali, tanto poi i profitti rientrano sempre nella “madre patria”. La sete di profitti dell'imperialismo fa anche perdere il buon senso nella produzione, la cura del lavoro passa in secondo piano, rispetto alla ricerca del massimo profitto.
I luoghi di potere sopranazionali come il G8, G20, Ue, Wef, Fmi, BM, ecc. sono le strutture dell'imperialismo, che ha sempre più la necessità di organizzazioni che superino gli steccati delle vecchie frontiere nazionali, per adattarsi alle nuove dimensioni produttive. Il ruolo delle organizzazioni sopracitate non è altro che quello di programmare le guerre d'invasione, spartire i nuovi “mercati” e organizzare (direttamente e indirettamente) la reazione contro il movimento operaio, ossia le tre caratteristiche fondamentali di come si manifesta l'imperialismo. Va sottolineato che negli ultimi anni la concorrenza tra i proletari su scala mondiale si è fortemente accentuata, aggiungendo un ostacolo all'organizzazione della lotta di classe nei paesi del centro.


4 Lo stesso sistema produttivo, nel quale si sviluppa il conflitto di classe, è dunque conseguentemente mutato: dalla fabbrica fordista in voga fino a pochi decenni fa, oggi notiamo invece come i centri direzionali e le funzioni a più alto valore aggiunto si concentrino nei paesi del centro. D'altra parte i paesi del centro sono sempre più i consumatori. Mentre sempre più beni di consumo e a lavorazione semplice vengono prodotti nei paesi della periferia dove il capitalista può contare su costi estremamente inferiori. La situazione attuale caratterizza i paesi avanzati per la dimensione finanziaria, l’offerta di servizi e la produzione tecnologia (macchine), la progettazione e altri settori ad alto valore aggiunto. L'industrializzazione delle periferie porta ad un incremento esponenziale della classe operaia (anche tramite processi di urbanizzazione), quasi ovunque nelle peggiori condizioni di lavoro.

6 – Nei centri imperialistici, come è la Svizzera, riscontriamo peggioramenti delle condizioni di vita e di lavoro dei salariati che subiscono non solo riforme volte alla precarizzazione e alla flessibilizzazione del mercato del lavoro, ma sono confrontati anche con i tagli nelle assicurazioni sociali e i perlomeno latenti processi di privatizzazione. Nonostante ciò, se paragonate alle condizioni in cui vivono i lavoratori della periferia, il livello di benessere risulta essere di gran lunga superiore. Ciò è dato però anche dal fatto che al capitalismo interessa mantenere un mercato di sbocco per merci e servizi di massa. Le lotte operaie in occidente, hanno permesso di sviluppare, all'interno del capitalismo, un sistema di sicurezza sociale più o meno efficace, delle condizioni di lavoro abbastanza regolamentate, dei servizi sociali, che non può in alcun caso essere comparato alle situazioni di miseria che esistono nei paesi capitalistici in via di sviluppo. Questo relativo benessere, ha portato all'illusione che ogni problema dei lavoratori e delle lavoratrici poteva essere risolto per le vie riformiste.

7 – Venendo meno il periodo del welfare state keynesiano (finanziabile anche grazie allo sfruttamento delle periferie!) a causa della crisi di sovrapproduzione sistemica che si manifesta costantemente dal 1973, i salariati nei paesi avanzati risentono della perdita di ricchezza sia finanziaria che sociale: i processi di “pauperizzazione” in atto nei paesi occidentali, con la precarizzazione del lavoro e la competizione con i lavoratori immigrati sono infatti sotto l’occhio di tutti. I lavoratori del centro si trovano sotto pressione a causa della concorrenza esercitata dalla disponibilità di mano d'opera a basso costo nel sud del mondo, vale a dire il rischio di delocalizzazione. Diventa quindi una priorità per i comunisti impegnarsi per la difesa dell'apparato produttivo nazionale.
8 – La fase storica nella quale ci troviamo noi oggi, genericamente definita post-fordista, non è quindi caratterizzata solamente dalla produzione flessibile, dal precariato e dalla mondializzazione, essa vede bensì un indebolimento di tutto il sistema capitalista occidentale che ha iniziato una fase di decadenza. Se nel periodo successivo alla Seconda Guerra Mondiale, all’aumento della produzione della grande fabbrica corrispondeva una forte concentrazione del proletariato che acquisiva peso numerico, grande capacità organizzativa, forza nella lotta e conseguentemente anche potere contrattuale. Questa situazione oggi non esiste più: il processo di mondializzazione permette al capitalista di estrarre nuovo plusvalore nelle periferie mentre nei centri il movimento operaio è in profonda crisi, ma non è potenzialmente scomparso, come si lascia intendere troppo speso. Nei paesi come il nostro esistono ancora dei nuclei consistenti di classe operaia legati alla produzione come le nano-tecnologie, chimica, biochimica, meccanica, elettronica, alimentari, beni di consumo di qualità e di lusso, materie prime (legno e pietra), trasporti, comunicazione, servizi di manutenzione, servizi di progettazione, servizi di smaltimento, servizi alla ricerca, ecc.

9 – La nascente grande industria meccanizzata a partire dalla seconda metà del XIX secolo era caratterizzata da una ancora debole parcellizzazione del lavoro: ciò permetteva di allontanare a fasi successive il processo di alienazione. Il legame che esisteva quindi fra i lavoratori e il prodotto finito lasciava percepire il ruolo del capitalista quasi come superfluo. Se a ciò aggiungiamo il dato della massiccia concentrazione di classe operaia in una comune situazione di sfruttamento e di povertà in un unico sito industriale, capiamo bene come fosse più semplice organizzare la classe operaia. Quelle modalità organizzative non sono certamente più concepibili al giorno d’oggi, in seguito all'evoluzione dei mezzi di produzione, ma anche dei modi di vita. L'arrivo in particolare della comunicazione di massa con televisione, telefonini, internet, mezzi di trasporto sempre più veloci, ha cambiato i codici di molti comportamenti sociali che implicano anche l'adattamento delle tattiche organizzative.

10 – La presenza ad Est dei paesi del socialismo reale ha dimostrato che il capitalismo non è l’unico modello di società possibile e che sul piano dei diritti civili e sociali i lavoratori potessero vivere meglio che sotto il capitalismo. La presenza invece, in Occidente, di forti partiti operai di massa, seppure spesso senza una reale valenza rivoluzionaria (si pensi al PCI berlingueriano), era un ulteriore elemento con cui il Capitale doveva entrare in trattativa. E quindi, nonostante la parcellizzazione del lavoro fosse aumentata (e quindi la coesione di classe diminuita), e malgrado ci si trovasse in una fase di importante crescita economica si assistette in quel periodo (fra gli anni 1960 e gli anni 1970) a nuovi momenti di lotta e a una ripresa del conflitto a dimostrazione, peraltro, dell’infondatezza della tesi del “tanto peggio, tanto meglio” che in certi casi influenza ancora parte dell’estremismo di sinistra.

11 – Non crediamo che la contesa inter-imperialista possa ridimensionarsi nel prossimo futuro e dobbiamo sempre avere in chiaro che operiamo in un paese del "centro" e non della periferia. Se in alcuni contesti, come in America latina, si manifestano situazioni rivoluzionarie, le condizioni soggettive in Europa sono tuttavia molto diverse. Fermo restando che il Partito si forma in base alle condizioni economiche, culturali, sociali e politiche date in una certa fase in un ben determinato contesto storico, nazionale e internazionale e che non esistono modelli da esportare, abbiamo bene in chiaro che non può esistere un Partito Comunista se esso non crea un rapporto organico, privo di dogmatismo ideologico, con la classe operaia e ampi settori della società sociali (e i movimenti che da essi possono sorgere) che subiscono lo sfruttamento e la crudeltà capitalista.

12 – Ci dobbiamo quindi chiedere quali saranno le contraddizioni che caratterizzeranno la fase storica e quali dovranno essere le forme organizzative che i comunisti dovranno adottare. Ve ne sono moltissime, noi iniziamo ad elencarne tre:
a) Il primo elemento da considerare è l'arrivo di una nuova crisi economica strutturale che sta colpendo dal 2008 anche l'Occidente capitalista. Le risposte politiche che sono state date fino a oggi, hanno mirato a distruggere tutte le conquiste del movimento operaio. La crisi mostra esplicitamente come lo Stato stia dalla parte del gran capitale e non di chi lavora. D'altro canto la frammentazione della classe operaia è ancora un ostacolo nell'organizzazione e l'unificazione della lotta. È quindi necessario sviluppare una campagna con il governo borghese del nostro paese, favorendo lo sviluppo di mobilitazioni operaie che ma mano passino da vertenze sindacali atomizzate, a lotta politica per la causa delle lavoratrici e dei lavoratori. Le recenti mobilitazioni nel settore edile in Ticino sono sintomatiche e il Partito potrà però costruire un proprio ruolo solo una volta stabilita una strategia anche in ambito sindacale (vedi sotto paragrafo C.4).
b) Il secondo elemento di contraddizione che appare evidente è la tendenza della borghesia a implementare politiche "securitarie", autoritarie, sempre più neofasciste e potenzialmente guerrafondaie (in ottica neo-coloniale, come stanno a dimostrare il recente attacco imperialista alla Libia o il tentativo di controrivoluzione in Siria). La linea del Partito Comunista di aperto sostegno ai giovani svizzeri affinché non svolgano servizio militare e si distanzino dall'esercito elvetico – che non è (più) né neutrale né di difesa – complice di tante aberrazioni (dalla repressione degli scioperi negli anni ’30 alle più recenti collaborazioni con il regime sionista di Israele e con la NATO) appare quindi lungimirante nell'ottica di non essere partecipi di tale tendenza e di sviluppare anzi altre capacità per i nostri militanti, come la conoscenza – attraverso il servizio civile – delle realtà quotidiane in vari ambiti professionali e sociali della classe lavoratrice. Sul fronte interno dobbiamo essere consci che le formalità democratiche del sistema politico borghese diventeranno tendenzialmente un crescente ostacolo per il processo di accumulazione capitalistica: esse saranno quindi progressivamente limitate quando non liquidate con scuse quali la “lentezza” della democrazia, l’indisciplina giovanile (che sarà affrontata con mezzi di controllo sociale), la microcriminalità (a cui si contrapporrà uno stato di polizia), ecc. La vigilanza democratica per la nostra organizzazione non va quindi sottovalutata nel corso del radicamento del Partito.
c) La terza contraddizione che notiamo è quella ambientale che permette, anche se non sempre da posizioni di classe, di mettere in discussione radicalmente il modello di crescita ecologicamente (e socialmente) non sostenibile tipico del modo di produzione capitalista basato dall’appropriazione del plusvalore all’interno di un contesto di riproduzione allargata atta a bypassare la caduta tendenziale del saggio di profitto, senza più un reale attaccamento ai bisogni sociali e individuali. Movimenti popolari, quindi, di resistenza alle cosiddette grandi opere (l’inceneritore dei rifiutati di Giubiasco-Baragge nel 2005; il gasdotto Metanord nel 2006; la variante autostradale sul piano di Magadino nel 2007; le urbanizzazioni selvagge; ecc.) che poi spesso si sviluppano in una critica all’intreccio “mafioso” fra affari e politica, mettono in discussione proprio la regola latente dell’accumulazione allargata del plusvalore e quindi dispongono di un potenziale oggettivamente anti-capitalista che come marxisti dobbiamo saper individuare e rendere esplicito.

13 – Dal quadro generale descritto nei punti precedenti si denota come il tessuto sociale nel quale ci stiamo muovendo è caratterizzato da una forte frammentazione di classe e da svolte pericolose di alcune frange del proletariato che vanno a comporre la base della Lega. Queste condizioni rendono necessario riflettere sulle modalità organizzative di un partito rivoluzionario in relazione alla classe operaia. E’ opportuno qui riprendere (e adattare) le posizioni espresse nel documento “Per un futuro socialista: un partito dei lavoratori che sappia incidere nella realtà” (paragrafi 1.4 e 6.2) adottato dal nostro ultimo Congresso Cantonale (giugno 2009): agire infatti come se fossimo (o potessimo diventare a breve) un “partito di massa” appare piuttosto illusorio. In questa fase – che è comunque ancora di ricostruzione del Partito dopo il forte ringiovanimento avvenuto – occorre mantenere un sano equilibrio tra formazione dei militanti, organizzazione del partito comunista, e radicamento sul territorio. Ognuna di queste tre questioni deve essere finalizzata alla lotta di classe e la lotta stessa è il miglior luogo per verificare la solidità del Partito. Sappiamo che non esiste un rapporto meccanico fra il numero dei tesserati e l’influenza sociale di cui il partito dispone effettivamente, occorre quindi costruire anzitutto un’organizzazione di quadri con funzione di massa, un partito d’avanguardia con una sensibilità popolare, che sappia fondare i principi organizzativi del movimento rivoluzionario del nostro paese. Per fare ciò occorre che si convochi al più presto una Conferenza Cantonale del Partito che lavori per una revisione totale degli statuti e per ragionare sull’attività collaterale dei comunisti nella società civile e nei movimenti, in particolare nel movimento sindacale.

B. Continuare il processo di “normalizzazione” dei comunisti

3 – Non si tratta solo di “normalizzare” gli ideali dei comunisti: tale prassi si spiegherebbe per chi non riconosce l’indipendenza del progetto comunista e, al contrario, concepisce i comunisti unicamente come “tendenza culturale” all’interno di un partito di sinistra ampio e potenzialmente opportunista (come stiamo assistendo in alcuni paesi d’Europa). Per chi, come noi, crede invece nella necessità di costruire un partito ispirato dall’evoluzione creativa e moderna del marxismo e del leninismo, il processo di “normalizzazione” riguarda proprio il Partito in quanto tale e l’ideologia che lo caratterizza, i suoi simboli e le sue parole d’ordine per quanto “vecchie” vengano dipinte. “Normalizzare” non significa in alcun caso “liquidare” o “revisionare” la nostra identità: non serve in nessun modo a cancellare né i simboli né i contenuti delle lotte operaie, delle lotte anti- imperialiste e dei tentativi concreti – riusciti o meno – di costruzione di una società emancipata dal capitalismo; significa bensì adottare la giusta tattica per farci riconoscere come una legittima componente della politica e della società democratica. “Normalizzare” non significa neppure, come abbiamo visto, “diventare come gli altri”, al contrario significa rendere consapevole la popolazione del fatto che i comunisti sono assolutamente diversi da tutti gli altri e che questa diversità non solo è legittima, ma è la condotta più etica, più giusta e più umana possibile. “Normalizzare” vuol dire quindi ridare al Partito quel ruolo “educatore” che la sinistra ha voluto abbandonare per sembrare forse più moderna, accettando il dilagare ovunque di impostazioni culturali borghesi quando non direttamente reazionarie.
5 Il Partito Comunista deve quindi scrollarsi di dosso le tare metodologiche e ideologiche di un ancora recente passato, dando importanza alla formazione ideologica e pratica dei militanti e all’elaborazione di tesi politiche e documenti strategici che diano chiarezza e coerenza alla nostra linea d’azione orientata al socialismo. A ciò va aggiunto che occorre continuare il processo di cambio a favore dell’indipendenza di classe del Partito, ovvero segnare nettamente la fine della prassi politica a traino degli avvenimenti e di subalternità.
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6 Un partito comunista non va visto come la rappresentanza la rappresentanza dei soli cittadini di sentimenti comunisti o della sinistra radicale. Un partito come il nostro deve essere invece il luogo nel quale le avanguardie dei lavoratori, degli studenti e, in generale, delle fasce popolari si organizzano democraticamente esse stesse per tutelarsi dagli attacchi della destra e per organizzare il movimento rivoluzionario. Come dicevano Marx ed Engels i comunisti devono essere parte integrante della classe e delle sue lotte, non certo limitarsi a mera testimonianza o rappresentanza. Quest’ultima è infatti contraria alla concezione leninista del partito, anche perché limita l’azione dei comunisti all’ambito dello Stato borghese e in modo particolare all’elettoralismo parlamentare. In tal senso ogniqualvolta esistono dei margini di agibilità il Partito deve stare all’interno del composito movimento popolare che presenta tratti comuni con il nostro pensiero, e ciò sapendo, marxianamente, non solo individuare la contraddizione primaria, ma anche distinguerla dalla contraddizione secondaria, sviluppando conseguentemente una politica di fronte unito privo di deviazioni settarie, che possa portare i comunisti ad acquisire egemonia in esso.

C. Priorità d’azione immediata

2 – Il Partito Comunista si trova in un momento di netto cambiamento del blocco sociale che contraddistingue la nostra base: i giovani, spesso senza una chiara distinzione di classe, costituiscono oggi uno dei nostri referenti sociali più consistenti e sul quale dobbiamo riporre le nostre energie ancora nel prossimo futuro. Occorre pertanto adeguare ulteriormente la nostra “linea di massa”, migliorando la nostra capacità di porre dialetticamente la relazione fra i diritti civili (l’abolizione del servizio militare obbligatorio, la depenalizzazione delle droghe leggere, ecc.) e i diritti sociali (i trasporti pubblici gratuiti, il salario minimo anche per gli apprendisti, ecc.). Per noi marxisti questi ultimi sono prioritari, ma è pur vero che le nuove generazioni sono molto sensibili anche ai primi. Si tratta di una contraddizione in cui dobbiamo immergerci con flessibilità ma
anche con grandissima consapevolezza ideologica affinché la nostra linea strategica, anche se duttile dal punto di vista della tattica, non si discosti dal marxismo e dal leninismo. La parola d’ordine è dunque quella di consolidare e rafforzare ulteriormente il lavoro svolto dai giovani comunisti, dando loro tutto l’appoggio ideale e materiale di cui necessitano. In quest’ottica sarà determinante insistere ulteriormente con la formazione politico-sindacale dei militanti e un maggiore coordinamento con il sindacato studentesco di riferimento. Il lavoro sul fronte giovanile va in generale approfondito (oltre alla presenza nelle scuole) lavorando su quei temi che possono suscitare particolare interesse fra le nuove generazioni: l’anti-militarismo (con l’obiezione alla leva da parte dei compagni coscritti come elemento d’esempio), l’ecologismo (inteso come svolta eco- socialista), gli spazi aggregativi (favorendo movimenti per l’autorganizzazione piuttosto che esperimenti paternalistici), l’anti-proibizionismo (nell’ottica anche di sviluppare un rapporto intergenerazionale ed educativo non autoritario). In ciascuno di questi temi va inserito a dosi propedeutiche e didattiche un messaggio di fondo di critica al modello capitalista.
4 – Precedenti documenti politici sia del Partito Comunista sia del nostro movimento giovanile hanno segnalato come necessario riprendere il discorso sindacale, come terreno strategico sul quale ricostruire la presenza dei comunisti nel mondo del lavoro. Per i comunisti il sindacato deve tornare ad essere una delle principali organizzazioni di massa, poiché si muove quotidianamente sul terreno del conflitto di classe tra capitale e lavoro e tocca gli interessi immediati di milioni di lavoratori. Preso atto della mutata composizione di classe della società, dell’effetto disgregatore del precariato, del subappalto, ecc., nonché della crisi sistemica che stiamo subendo come paese capitalista occidentale, riteniamo che il sindacato vada ripensato a fondo e il modello della “pace del lavoro” ha causato sufficiente frustrazione al movimento operaio ed è ora di smetterla di rispiettarla. Occorre costruire dal basso un’alternativa che ridia vigore all’azione sindacale sul posto di lavoro, in un movimento operaio svizzero molto fiacco. La priorità assoluta del movimento sindacale svizzero deve essere il rilancio della contrattazione collettiva, sviluppando movimenti di lotta per la difesa e il miglioramento delle condizioni di lavoro. In futuro queste lotte si dovranno intrecciare dialetticamente con il tessuto urbano e sociale circostante per creare ampi fronti di tutela e rivendicazione dei diritti sociali, passando dal conflitto “economista” al conflitto politico di classe. Si tratta insomma di costruire un legame fra la lotta concreta e la società civile, come nel 2008 abbiamo vissuto alle Officine FFS di Bellinzona, affinché si riesca a rifuggire dalla logica del corporativismo. Tale alternativa – pur non abbandonando in sé la prospettiva di un nuovo sindacato di base – può iniziare a svilupparsi come corrente intersindacale di classe organizzata su iniziativa del Partito e legata alla Federazione Sindacale Mondiale. Il Congresso Cantonale invita i nuovi organi dirigenti del Partito a chinarsi sulla questione e a sviluppare una strategia d’intervento.